Profili dei Cantastorie di Jelsi
Domenico Petruccioli pescatore, Luigi Bifolchi falegname, Luigi Padulo non-vedente: senza sapere di Walter Benjamin, nella lingua tagliata del loro dialetto e nei canti, hanno raccontato i sogni e la vita di una comunità rurale, violata nella sua cultura musicale dalla sovrastante società industriale.
Dalle difficoltà esistenziali e dalle angustie della storia, tentavano di ricostruire il "paesaggio sonoro" di un mondo privo, per tanto tempo, di cultura e storia scritta.
La dimensione orale, dialogica, comunitaria, in cui erano immersi, aveva scavato solchi profondi nel loro animo.
Gli autori, in sintonia ignara con il grande musicista e ricercatore canadese R. Murray Schafer, percepivano la "schizofonia", la dissociazione dei suoni dal loro contesto originale e originante. La frattura tra la musica delle canzonette e la propria identità sonora.
Pochi gli strumenti disponibili ma straordinaria la loro sensibilità naif nell' avvertire lo sconquasso, i tagli, le cicatrici, l'ablazione delle "impronte sonore" che la rivoluzione industriale stava provocando nelle campagne e in luoghi remoti della montagna italiana, come in Jelsi.
Una civiltà contadino-artigianale vinta ma non sconfitta. Un mondo piccolo ma non minore a cui questo album, di musicisti formidabili e cantanti splendidi, ha ridato dignità e grandezza non misurabili.
La coscienza ritrovata della rilevanza della civiltà rurale e delle proprie tradizioni ha trovato forma ed espressione nei saperi solidi e nella passione di tutti quelli che hanno collaborato alla
realizzazione dell’album Messere voglie chentà a cura della infaticabile musicista e musicologa Giampiera Di Vico, un vero atto d'amore verso la propria gente e la propria storia.
Domenico Petruccioli
nasce a Jelsi il 2 Luglio 1892. Figlio di Maria e di Michele
Petruccioli,
ultimo di 4 figli, frequenta le scuole fino alla quinta elementare, a Jelsi e
nel convento dei
Domenicani di Cercemaggiore. All' età di 21 anni emigra negli Stati Uniti dove
si aggrega ad
una compagnia teatrale, diventando artista di strada. E' a contatto con quel
mondo che
comincia a sviluppare tutta la sua inventiva e la sua vena artistica. Ma, nel
1920 è costretto a
tornare precipitosamente in Italia, per paura di ritorsioni mafiose. Qui
partecipa alla seconda
guerra mondiale nella Crocerossa ma viene congedato perché ferito in un
bombardamento.
Dopo la guerra vive scrivendo poesie, facendo il pescatore e l'impagliatore di
sedie. Ma
Domenico è, soprattutto, il "Poeta" .
Tante poesie scritte in un dialetto più simile a quello campano che jelsese.
Tra le più belle ricordiamo: Il mio ritratto,
Lo strano sogno, Non ti saluto più
e la canzone [eoezeròlè,
oltre a l'opera dei Soprannomi
e tante altre che raccontano fatti di vita quotidiana, ricorrenze e forme di
protesta politica. Petruccioli introduce nella Jelsi del tempo un' esperienza
unica per tutta la gente dell' epoca: il teatro. E' sua
l'organizzazione delle opere teatrali rappresentate a Jelsi:
Il ratto delle Sabine e
La Passione di Gesù. Tutti gli
jelsesi che lo hanno conosciuto ricordano le sue famose
Maschere. Per il suo "Teatro" e per
le sue "Maschere" si
mobilita tutto il paese. In tanti partecipano al confezionamento di vestiti,
armature, cavalli, fiaccole, pranzi di
ringraziamento ed in tanti partecipano come primi attori e figuranti, sotto la
sua pignola regia. Anche il suo
impegno politico (si iscrive al Partito Comunista Italiano) si rileva nella sua
poesia, come dimostra Lo strano
sogno, poesia che viene recitata e fatta imparare a memoria ai suoi
figli ma che non viene mai scritta per paura
della censura, e che ricorda in parte la Divina Commedia di Dante. Come spesso
capita ai veri artisti, spende
tutto quello che guadagna, amante del bere, del fumo e della bella vita. La sua vita è ben
riassunta nell' epitaffio scritto sulla sua lapide, dettato ai suoi figli in
punto di morte nel
gennaio del 1966, dopo aver chiesto l'ultima sigaretta: "Qui giace un
nullatenente che fece divertire tutta la
gente. La morte fatale lo colpì ed ora riposa qui".
Luigi Bifolchi
nasce il 23 ottobre 1917 a Napoli da una famiglia molto modesta. Ragazzo
molto sveglio e animato da un' enorme curiosità intellettuale, avrebbe voluto
studiare, ma
all' epoca questa strada era aperta solo a pochi eletti. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, viene inviato
in Libia. Già dai primi anni del dopoguerra comincia a scrivere
poesie in dialetto. La più nota,
'A
Mésse de Notte, è .infatti del
1948. Intanto si interessa sempre più alle lettere, alla musica, al
teatro. Negli anni immediatamente successivi dà vita a un altro progetto:
mettere insieme un
gruppo folcloristico puramente jelsese. Per l'occasione scrive tre canzoni:
Vurrìe meni che tté,
Canie che mmé, Menìte e 'siu
pejése, alle quali se ne aggiungono
due di Petruccioli: 'A [eoèzerbìe
e [anneiénne che
mmé. Il gruppo si esibì in piazza a Jelsi, ma quella fu la prima e
l'ultima rappresentazione. Trasferitosi successivamente a Campobasso, può dedicarsi
con maggiore serenità alla sua passione di sempre:
la poesia. Nel 1981 si decide a pubblicare una prima raccolta:
Quànne ce
pènze, dal titolo del componimento al
quale forse teneva di più. Gli anni '80 segnano in un certo modo una svolta.
Nelle poesie di quegli anni cerca
di concentrarsi maggiormente sugli elementi più specifici della vita jelsese del
passato. Nascono così, 'U ciocchère, 'U
furne
d'a terre, 'U
léttè, 'A zite, e tante altre che
descrivono momenti e usanze particolari. Sono
anche gli anni in cui si fanno più stretti i rapporti con la comunità jelsese in
Canada, che lo ospita per
l'organizzazione di uno spettacolo di arte varia. Matura inoltre l'idea di
approfondire il dialetto in modo più
sistematico, raccogliendo in una sorta di nomenclatura termini e usi legati alla
vita quotidiana: la casa, i lavori
nei campi, la cucina, la tessitura, ecc., ma non può realizzare il progetto
perché nell' ottobre 1991 muore per un
attacco cardiaco. Nel 1992 è pubblicata postuma la seconda raccolta di poesie:
'O scarpe c'ò nècchè. Il dialetto dei suoi componimenti
è quello puro, antico, a volte frutto di
una vera archeologia linguistica, tanta
è la sua voglia di preservare quell' eredità del passato dal rischio di essere
travolta da una modernizzazione a
volte spietatamente ottusa. I temi sono quelli classici della poesia popolare:
l'avvenimento da commentare, le
feste, i momenti speciali della vita contadina, la satira politica e di costume,
l'amore, la morte, e tanti altri.
Naturalmente alcune poesie vanno inquadrate in un preciso contesto
storico-sociale, con personaggi e
situazioni che difficilmente parlano
agli attuali ventenni o trentenni. Tuttavia, facendo astrazione da certi
riferimenti precisi, la sostanza, il messaggio e il tratto di colore restano
tuttora validi.