La vita prima del debito. Perché mai dovremmo pagare? Una recensione. Dal mensile "Il Bene Comune"
http://www.ilbenecomune.it/web/index.php?page=elemento&id=29195
di Roberto De Lena
Immersi come siamo nell'orizzonte delle crisi (esistenziale, politica,
economica, sociale, ecologica) del nostro tempo, trattare del tema del debito
pubblico potrà apparire a molti, oggigiorno, una questione di secondaria
importanza o, addirittura, irrilevante. Al contrario, come vedremo brevemente,
il pagamento dei debiti influisce pesantemente sulla condizione di vita precaria
di milioni di uomini e donne, giovani e meno giovani.
Bombardati dalla disinformazione mediatica ed oramai sprovvisti di una visione
complessiva, storica e progettuale, dei processi sociali in corso, ci ritroviamo
incapacitati ad affrontare l'urgenza e la drammaticità di fenomeni che paiono
determinarsi dall'alto, al di sopra delle nostre volontà collettive. Per questo
tendiamo a cedere alla facile scappatoia di spiegare fenomeni complessi con
risposte semplici ed immediate (euro sì, euro no) e a trascurare la dimensione
relazionale, connettiva, complessa della crisi in atto.
Indagare il tema molto concreto del debito pubblico, letto al di là di ogni
tentazione riduzionista, può aiutarci proprio a cogliere queste connessioni e,
perché no, ad immaginarne e crearne di nuove.
Oltre i riduzionismi, per una centralità del dibattito sul debito.
In una società modellata sul paradigma competitivo dell'impresa e del libero
mercato, chi resta indietro deve, nella migliore ipotesi, farsi bastare le
briciole del sistema, nella peggiore sentirsi colpevole per aver vissuto al di
sopra delle proprie possibilità, in ogni caso accontentarsi di un esistente in
apparenza già scritto. Ineluttabile. Senza alternative. Per ripagare il maestoso
debito pubblico italiano dobbiamo essere disposti ad accettare ogni tipo di
sacrificio. Il grimaldello che apre la gabbia di questo dispositivo passa
proprio da qui, da una analisi sul tema.
L'enormità dell'attuale debito pubblico italiano è infatti il frutto di precise
scelte politiche ed economiche, ma questo raramente ci viene raccontato: "Nel
1980, il debito pubblico italiano era di 114 miliardi di euro, nel 1996 era
salito a 1150 miliardi di euro e oggi a quasi duemila miliardi di euro. Dal 1980
ad oggi gli interessi sul debito hanno richiesto un esborso in interesse pari a
2141 miliardi di euro" (A. Zanotelli, p. 41). Fu il divorzio tra il ministero
del tesoro e la banca d'Italia, nel 1981, ad aprire la strada della svendita ai
privati del debito pubblico nazionale "con conseguenze disastrose. Senza un
salvatore alle spalle, lo stato non aveva altra scelta se non quella di
accettare le condizioni imposte dal mercato, ossia dalle banche. La spesa per
gli interessi si impennò, lo stato perse il passo dei pagamenti e il debito
prese a moltiplicarsi. Il disastro era servito". Con il risultato che oggi il
debito pubblico italiano è composto al 90% da interessi.
Come si vede, il ricorso all'indebitamento sfrenato da parte degli stati va
letto, per essere compreso, all'interno di un orizzonte temporale di più lungo
periodo e come il frutto maturo dei processi di privatizzazione e
finanziarizzazione delle economie praticati e imposti dai grandi potentati
economici transnazionali su scala planetaria. Come fa notare Marco Bersani: "già
alla fine degli anni settanta, il modello si è trovato immerso in una crisi da
sovrapproduzione e mancata allocazione su nuovi mercati: ovvero, si è dovuto
confrontare con una stragrande maggioranza della popolazione mondiale talmente
impoverita da ritrovarsi senza alcun potere d'acquisto. È stato a questo punto
che il modello capitalistico ha modificato il proprio agire, trasferendo enormi
risorse direttamente sui mercati finanziari, ovvero ovviando alla difficoltà di
continuare ad ottenere profitti scambiando merci con la ricerca di profitti
semplicemente scambiando denaro. Si potrebbe quindi asserire che, lungi
dall'essere la crisi del capitalismo creata dalla finanza, è stata proprio
quest'ultima a posticiparne di almeno venticinque anni la crisi, consentendo nel
frattempo profitti di inimmaginabili proporzioni" (M. Bersani, p.103). Quando,
nel 2007/08, c'è stato lo scoppio dell'enorme crisi bancaria sono stati dunque
presi d'assalto i debiti sovrani degli stati, cresciuti esponenzialmente nel
corso dei decenni precedenti, proprio a causa del ricorso ai prestiti forniti da
quelle stesse banche che gli stati hanno successivamente contributo a salvare
dalla bancarotta: "I fatti sono noti. A fine 2007 i sistemi bancari delle due
sponde dell'Atlantico sono arrivati sull'orlo della bancarotta come risultato di
operazioni speculative andate male. Prontamente sono intervenuti i governi
pompando migliaia di miliardi negli istituti bancari, in parte messi a
disposizione delle banche centrali, in parte attinti dai bilanci pubblici. A
conti fatti risulterà che i governi europei hanno impegnato 4500 miliardi di
euro per operazioni di salvataggio bancario. Ma poiché quei soldi non li
avevano, hanno indebitato i cittadini che oggi sono alle prese con un debito
pubblico complessivo di 14000 miliardi di euro a livello di unione europea" (F.
Gesualdi, p 48).
Il debito, materia viva e concreta.
È molto difficile rendere conto della durezza e della materialità delle crisi
che stiamo attraversando ricorrendo alle parole. Eppure abbiamo bisogno di un
discorso razionale che individui le cause di ciò che sta avvenendo, che parli un
linguaggio diretto e comprensibile a tutti. L'incapacità di far fronte al
pagamento di un affitto o delle bollette, l'inaccessibilità per molti ai servizi
sanitari, l'aumento spropositato dei costi dei mezzi di trasporto, la
disoccupazione dilagante non sono fenomeni celesti ed imperscrutabili. Esiste,
come abbiamo visto, una chiara traiettoria dietro le scelte dei governati che
impongono, per esempio, una drastica riduzione dei fondi destinati alle
politiche di inclusione sociale. Come ci ricorda senza mezzi termini Luciano
Gallino, la lotta di classe, oggigiorno, è più viva che mai e viene condotta a
ritmi forsennati dai detentori del capitale . Le conseguenze di ciò sono note a
tutti. In merito alla situazione greca, per esempio, ce le "hanno raccontate le
organizzazioni sanitarie e umanitarie. Tre milioni di greci, il 27, 2% della
popolazione, sono senza copertura sanitaria. La mortalità alla nascita è
aumentata del 21% mentre la mortalità infantile è cresciuta del 43%. Stanno
tornando malattie come la malaria e il virus West Nile, mentre esplodono i casi
di Aids e di tubercolosi come conseguenza della malnutrizione, del peggioramento
delle condizioni igieniche e del collasso dei programmi di assistenza. Tra il
2007 e il 2011 i suicidi sono aumentati del 45%. Risultato drammatico della
riduzione di spesa per la salute mentale che ha portato alla chiusura di
moltissimi servizi di psichiatria" (F. Gesualdi, p.49). Tutto ciò pare calato
sopra le nostre teste in modo repentino e violento, al pari di un'alluvione o un
terremoto. Eppure, nonostante le borse e i mercati, le agenzie di rating e le
stesse istituzioni economiche europee vadano sempre più assumendo i tratti di
esseri divini e soprannaturali, sappiamo che non è così. Che il disastro non è
inevitabile, ma che è, al contrario, il frutto di una narrazione spesso falsa,
comunque parziale e mistificatrice. Quanti di noi sanno, per esempio, che
l'Italia mantiene da decenni un avanzo primario dei bilanci che però viene
utilizzato in buona parte proprio per ripagare gli interessi sul debito pubblico
e così sottratto dalla spesa sociale? "Non è affatto vero che lo stato spende
troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso
dello sviluppo. È vero invece che lo stato spende troppo poco rispetto a quanto
incassa, venendo così a mancare all'impegno di restituire ai cittadini le
risorse che da loro riceve. Il danno maggiore questo squilibrio lo reca
all'occupazione. Di fatto, da quasi due decenni la disoccupazione è spinta in
alto dal fatto che lo stato preleva ogni anno dal reddito degli italiani decine
di miliardi in più di quanti non ne restituisca loro in forma di beni e servizi,
mentre per lo stesso motivo l'economia è spinta in basso"(L. Gallino, p.85).
Può bastare questo per comprendere che "il debito è asservimento", come ci
dimostra magistralmente David Graeber nel suo libro sul tema?
Connettere, non unificare.
Evidentemente il tema del debito attraversa trasversalmente ogni discorso che
facciamo nella crisi sistemica odierna. Esso rappresenta uno dei fili portanti
che danno sostegno alla ragnatela capitalistica nella quale siamo, come mosche,
impigliati. È per questo che può essere utile ripercorrerlo, per vedere se e
come cominciare a spezzarla. È per questo, ancora, che i detentori del potere e
del capitale lo utilizzano come un tabù, come una colonna oltre la quale è
sconsigliato, se non proibito, spingersi.
Della rilevanza del tema del debito sulla crisi economica e su quella sociale
qualcosa si è detto. Va da sé che lo scenario che si è provato sommariamente a
delineare va ad investire pure la sfera della crisi politica che non solo il
sistema Italia sta attraversando e che si manifesta con forme di vera e propria
repulsione nei confronti della rappresentanza e con l'aumento consistente
dell'astensionismo alle elezioni. In questo senso, i Salvini e i Grillo, lo
stesso Renzi, manifestano il tentativo di colmare un vuoto, sono la
manifestazione visibile di una tentazione nostalgica, dell'incapacità di pensare
un oltre. La classe politica ha infatti, come si è visto, avallato le politiche
di indebitamento degli stati e oggi si ritrova risucchiata da una spirale
perversa che essa stessa ha contributo a determinare.
Inoltre, essere soggetti indebitati ha delle ripercussioni pure sulla condizione
esistenziale di chi la vive . In tedesco questa assonanza è resa evidente dalla
lingua, dove la stessa parola utilizzata per dire debito sta a significare pure
colpa: ci sentiamo colpevoli di aver alimentato un debito, del quale, però,
siamo solo in minima parte responsabili. Rendersene conto potrebbe contribuire a
salvare vite umane dallo scoraggiamento, dalla disperazione e dai gesti folli
che ne sono diretta conseguenza. C'è, inoltre, la crisi ecologica, in senso
stretto ambientale: come quando sul piano della responsabilità individuale ci
troviamo nell'impossibilità di ripagare un debito ci vengono ipotecati i beni e
messi all'asta, così avviene per il sistema paese: lo sblocca-Italia, per
esempio, è un'ipoteca ai privati dei nostri territori, dei nostri ecosistemi,
che sta dentro l'esigenza strutturale di fare cassa per raggiungere il tanto
agognato pareggio di bilancio. Ora, comprendere questi nessi sul piano teorico,
può aiutare forse i movimenti sociali che dal basso agitano e danno vita alla
politica, quella vera, nei territori ad individuare una cornice comune di
mobilitazione attorno alla quale costruire e dare progettualità collettiva alla
molteplicità di lotte che agitano il panorama nazionale italiano. Senza la
necessità di unificare a tutti i costi la specificità e la diversità (cioè, la
ricchezza) delle resistenze diffuse, si potrebbe avviare una discussione che
abbia nel tema del debito pubblico (e della sua odiosità) un patrimonio
condiviso. Risalire all'inverso quel filo della ragnatela, appunto.
D'altronde, come ci mostra molto bene Aldo Zanchetta, nella sua ricostruzione
storica del fardello del debito nei paesi dell'America Latina, che hanno subito
la crisi debitoria prima dell'Europa, "un caso storico che dovrebbe essere
meditato meglio dai paesi indebitati è quello della contestazione del debito
praticata negli anni Trenta del XX secolo. Ben 12 paesi si trovarono nella
condizione di dover sospendere i pagamenti del proprio debito. Ben cinque di
questi (Brasile, Colombia, Cile, Messico e Perù) decisero di annullare
unilateralmente il debito ricavandone un impulso per le proprie economia. I
cinque paesi operarono di comune accordo e questa fu la chiave del successo.
Dopo la seconda guerra mondiale detti paesi intavolarono una trattativa coi
governi dei paesi creditizi ottenendo riduzioni sostanziali dello stock del
debito" (A. Zanchetta, p.99)
Certo, questa soluzione non risolverebbe di un sol colpo tutti i problemi che ci
troviamo a fronteggiare, ma rappresenterebbe senza dubbio un segnale forte ed
inequivocabile di inversione di tendenza, una boccata d'ossigeno rispetto
all'asfissiante gabbia del pensiero unico neoliberista. Comprendere le
connessioni, dunque, significa proprio questo: lavorare affinché esse diventino
pratiche reali e concrete di resistenza.
La vita prima del debito.
La vita prima del debito va letto proprio all'interno di questo scenario. Come
dice Antonio De Lellis, curatore e tra gli autori del volume, "questo lavoro
rappresenta un tentativo di mettere assieme chi si occupa di crisi economica,
sia in Italia che all'estero, a livello di movimenti sociali e di movimenti
ecclesiali, nella certezza che la cultura economica è tale solo se è effetto di
una contaminazione che produce connessioni e interconnessioni. Per questo motivo
si sono scelti autori che hanno accettato la sfida della contaminazione e che
sono anche disposti ad investire il loro sapere per risolvere uno dei problemi
più gravi del nostro tempo." (A. De Lellis, p.17). In questo dibattito, la
cultura protestante, quella dei paesi meno toccati dalle vessazioni del debito
in Europa, dovrebbe assumere, a mio avviso, un ruolo di centrale rilevanza,
poiché, come fa notare ancora Francesco Gesualdi "il grande fine è cambiare
anima all'Europa. Farla passare dal DNA mercantile a quello sociale. Farla
smettere di essere ostaggio di banche, assicurazioni e ogni altro genere di
multinazionale, per farla diventare paladina della pace, del creato, della
dignità del bambino, del disoccupato, dell'anziano, dell'ammalato, del
rifugiato, del senza casa, del senza scuola, del senza futuro. Ma l'Europa non
cambierà da sola. Lo farà solo se costretta dal basso. Tocca a noi, a ciascuno
di noi, costruire quella forza d'urto capace di scuoterla. Se non ora, quando?"
(F. Gesualdi, pp.50/51)
In conclusione, si può dire che La vita prima del debito rappresenta un lavoro
molto stimolante per chi intende camminare insieme ad altri sulla via della
costruzione di un mondo diverso, che è poi la costruzione di una diversità di
mondi dialoganti. Fin dalla scelta del titolo: in quel prima, infatti è a mio
avviso raccolta una duplice dimensione. È un prima di carattere valoriale,
etico: la vita viene prima del debito, del profitto. Ma è anche un prima di
carattere storico: c'era vita, sul pianeta, prima del debito. Ma forse più
interessante ancora è notare la connessione (ancora una volta) tra le due parole
che quel prima divide e lega nel medesimo tempo: vita e debito. Lo strumento del
debito innerva una macchina infernale: di sofferenze, di violenze, di
ingiustizie, di morte. Se, al contrario, scegliamo di stare dalla parte della
vita, della solidarietà, della libertà, del dialogo, non possiamo che porci
l'interrogativo successivo. La vita viene prima del debito, dunque: perché mai
dovremmo pagare?
NOTE
1. Le principali citazioni presenti nel seguente testo sono tratte del libro
oggetto di questa recensione: De Lellis A. (a cura di), La vita prima del
debito. Perché mai dovremmo pagare?, bordeaux ed. 2014
2 Gesualdi F., Le catene del debito e come possiamo spezzarle. Feltrinelli ed.,
2013
3 Si veda: Gallino L., intervista a cura di Paola Borgna, La lotta di classe
dopo la lotta di classe. Laterza ed., 2012
4 Si veda: Graeber D., Debito. I primi 5000 anni. Arrivederci e grazie! Il
Saggiatore ed., 2012
5 Si veda: Lazzarato M., La fabbrica dell'uomo indebitato. Saggio sulla
condizione neoliberista, DeriveApprodi, 2012