Solvitur ambulando. Parola di Chatwin, neanche a dirlo. E io almeno approvo. Magari lo porto scritto nel cognome un po’ di nomadismo, certo è radicato nell’anima. Mi piace camminare, sola, e scrutare e fiutare l’aria e sentire gli odori: anche così trovo soluzioni, non solo nel senso che intuisco rimedi possibili ad un problema, ma anche in quello, pure vicino al significato del termine solvere, che mi affaccio su un problema, lo discuto con me, scopro, attingo piccole porzioni di verità.

Camminando in questi giorni di inizio settembre ho intravisto la causa di quel sentimento contraddittorio che a momenti, come l’attuale, mi affligge dolorosamente, una noia inquieta, la strenua inertia dei latini, la palude dello spirito che ribolle nel suo cerchio e però poi è costretto alla stagnazione, per non scorgere vie di fuga.

C’è che mi mancano la discontinuità e l’alternanza e la diversità e la distonia e la bizzarria, tolte le quali il mondo mi pare un’armonia spenta.

Finanche il clima mi angustia, con l’ininterrotta vicenda di piogge torrenziali e temperature tiepide che si protrae da mesi e mi ha privata del sentore dell’estate, con le sue ventate aride e i suoi profumi intensi, e parimenti mi priva ora di un degno passaggio all’incipiente autunno. Vorrei sentire le narici pizzicarmi dal freddo, vorrei vedere foglie di colori screziati staccarsi dagli alberi e volare fragili, vorrei annusare il dolce dell’uva pronta alla spremitura, vorrei che gli insetti la finissero di pasteggiare su di me. E invece niente.

Ben oltre il clima, però, l’omologazione, la simmetria prevedibile, la mancanza di discontinuità, l’appiattimento mi paiono sempre più un dato tutto umano e culturale ed è questo specialmente a provocarmi disagio.

Certo viviamo in un’epoca storica che ha fatto salve molte diversità; ma, a parte il fatto che si tratta di diversità legalmente garantite più che sostanzialmente-direi meglio spiritualmente-accolte, non siamo riusciti a penetrare il senso e ad apprestare la tutela della vera diversità, che è nell’indole-io credo-, nel carattere, nell’intelligenza, e si traduce in gesti e modi e linguaggio e gioco di sguardi e scelte di vita o semplicemente abitudini, manie, storie distanti ma egualmente rispettabili. Così sprofondiamo inavvertitamente in una zona di uniformità grigia, di pose corporee e sintassi verbale conformate, di sentimenti mercenari ad usum Delphini, dove il Delfino è tristemente facebook o twitter o cos’altro. Raramente incontro persone che sfuggano a questa uniformità, che mi catturino e mi parlino davvero; spesso sono quelle che i più considerano strambe e anomale, fuori dai ranghi, out.

Mi vengono in mente due episodi recenti, di segno opposto, che mi hanno intristito e fatto pensare.

Sono seduta con due amici al tavolo di una birreria a Campobasso, parliamo. Arriva un gruppetto di  ragazze accompagnate da altrettanti ragazzi. Noi tacciamo, come colpiti da una folata di fresco e un po’ curiosi guardiamo e ascoltiamo pure. Le giovani sono invariabilmente perfette, invariabilmente dotate di lunghi capelli biondi acconciati alla moda e denti di madreperlacei; iphone nelle mani, su di quelli invariabilmente compulsano, rivolgendosi tra loro poche parole, smunte, rigurgiti di lallazione. Idem gli accompagnatori maschi, alti e belli, ben vestiti, occhi opachi, voce atona, posture di plastica, discorso nullo. Rimango stupita dalla noia.

Secondo episodio. Un anziano signore di Campobasso, del tutto inoffensivo, malato di solitudine forse, che gira per la città, parla tra sé, talora apostrofa i passanti con frasi confuse. Di nuovo mi trovo seduta con degli amici su una panchina in centro; lui sbuca da una via della città nota per essere un corridoio affollatissimo di giovani, ci scorge, riconosce i visi adulti, si ferma davanti a noi ed esclama ansimante: “Mamma e come so’ cattivi! Solo che sono passato e mi hanno preso in giro”. Mi si è stretto il cuore. Sarebbe da discutere su chi sia matto e cosa anormalità, se un anziano che si aggira solo biascicando parole apparentemente insensate o un gruppo di giovani in solido e in forze, apparentemente sensati, ma in sostanza ineducati al rispetto degli altri e della loro singolare, irripetibile diversità.

A me piace la parola “strano”, la trova addirittura rassicurante. Penso che dovremmo meditarla intimamente noi adulti e valorizzarla ed insegnarne la bellezza ai giovani; penso che fino a quando ci sarà qualcosa di nuovo, inatteso, indefinito, inquietante, bizzarro, balordo, strampalato, in una parola “strano”, l’umanità sarà ricca di storie da raccontare, di mondi da attraversare, perché “strano” è semplicemente quello che intuiamo essere una trama non ancora declinata.

“La mia pena è durare oltre quest’attimo”: un verso memorabile di Mario Luzi, in cui egli descrive il dolore, la fatica che accompagnano l’attitudine del poeta a fissare ciò che andato perduto, a far durare ciò che gli uomini tutti percepiscono talora, ma poi, rapiti dal tran tran quotidiano, dimenticano.

Ci sono momenti in cui l’esistenza umana si illumina improvvisamente, gratuitamente imprevedibilmente, di fronte ad un volto visto in una certa piega, un sorriso o un velo di pianto trattenuto in fila al supermercato, una camminata incerta e rallentata. Sono convinta che quegli attimi di luce che il poeta ferma e rende imperituri nel ricordo sono quelli che esorbitano la norma, quelli che  meriterebbero a ragion veduta l’epiteto di “strano”.

 

Luciana Zingaro