L’urgenza di alzarsi e andare – di viaggiare, di seguire il cenno
dell’orizzonte, di lasciare se stessi e avvicinarsi così a silenzi e spazi
interiori – questo bisogno deve essere antico quanto la nostra consapevolezza di
essere uomini. Le soste saranno luoghi dell’immaginazione, ma anche tappe della
sopravvivenza: una valle privilegiata, un pozzo d’acqua che oscura scintilla, un
pascolo per gli animali, un mercato con grida e fruscii di stoffa, una città di
uomini assennati e donne dissennate e piccole ciotole piene di dolcetti rossi,
petti di piccione ripieni, la stagione è appena cominciata, un incrocio e
scontro di stelle, la distanza dove nasce il vento.
I tuoi occhi decifrano istintivamente la terra come fosse un libro che narra di
enigmi e pericoli. Niente ti appartiene e tuttavia sei padrone di miriadi di
stelle, ora di quel vento, ora di questa direzione, di queste stesse ombre che
serpeggiano sulla terra. Ogni viaggio sarà nell’ignoto ma anche così i percorsi
sono segnati dal modo in cui pensieri e sogni diventano parole e le parole
diventano piste e le piste si trasformano in sabbia. La sabbia che si muove e
offusca la tua vista sarà passi – i tuoi, quelli degli antenati, quelli dei tuoi
compagni. Gli uccelli ti ricorderanno nel cielo, il loro volo una freccia sul
terreno. È così che leggi i paragrafi della tua vita.
Il sole è il tuo rifugio; la notte il tuo fuoco.
Fin dal principio c’era il bisogno di andare oltre e portare con te quello che
avevi da offrire – sale, spezie, storie, moschetti, forse schiavi – da barattare
con ciò che dovevi ottenere per proseguire. Viaggi così profondamente da un
linguaggio all’altro (ovvero, tra un fiume e l’altro) che non sei più uno
straniero nel luogo che è la tua destinazione.
Un giorno tornerai dove sei partito con un altro sguardo negli occhi e l’eco di
luoghi lontani nella tua immaginazione. Dentro porterai l’ombra di un mondo
leggero e trasparente come le ali delle mosche, libero dall’intersezione di
tempo e spazio. Sembri essere lo stesso, e tuttavia sarai lo straniero perché
ormai macchiato dalla pelle invisibile di ore infinite passate sulla strada, da
strane avventure e grida sconosciute, dall’aver ascoltato i discorsi notturni
dei compagni nomadi tuoi simili con i quali hai condiviso l’acqua e l’alba e
adesso li conosci più intimamente della tua stessa famiglia. Partirai per
portare indietro sale, spezie, storie, dèi, risate di uomini dissennati e
sussurri di donne assennate, forse stoffa e oro e conoscenza. Guardi i tuoi
piedi e ne sei stupefatto. Sono davvero i miei?
Presto, l’anno cambierà e gli uccelli migreranno in uno svolazzare di nuovi
paragrafi. Il vento riprende a chiamare. C’è un odore nuovo che viene da appena
oltre l’orizzonte. Sarà tempo di andare.
Ci sono limiti espressi nei ritmi, nella fine del verso, ma non confini.
Le frontiere sono sempre diverse da come appaiono sulle mappe dei comandanti e
dei conquistatori, perché gli spazi che penetri e attraversi sono più profondi e
molto più antichi. E non sono statici. Pur se oscurati dalle ombre, vengono
spesso sfigurati dal potere, e se è così il potere sarà diventato il rictus
polverizzato del tempo.
La poesia è la tua guida.
Ci saranno tribù di poesie a indicarti la strada. Alcune verranno a sussurrarti
nel sonno, parlando piano come le brezze dell’oscurità; altre ti bruceranno gli
occhi e ti strapperanno le viscere.
I preparativi sono importanti. È bene riposare su un fianco rivolti alla porta.
Quando ti sveglierai ci sarà un frullare di ali, forse un brusio di voci umane e
il lungo respiro mormorante della poesia come perline e conchiglie che vengono
contate. Avresti voluto sognare di acqua e fumo. Apri il libro e vedi i segni:
cani, vele, tetti, alberi, la vivida preghiera di un abito sgargiante a
mezzogiorno, mosche, il fremito della luce sul fiume, latte, movimento, la
lingua dell’ospite come un dito che segue le parole. E ti pieghi in avanti per
ascoltare più da vicino perché adesso sai che l’immaginazione è una migrazione
sussurrata d’immagini.
E porterai con te le parole come granelli di sabbia nella tua scarpa (dopo
esserti congedato con un inchino dalla dimora di una notte), per mischiarli a un
deserto di passi – sempre nuovo, sempre lo stesso.
Ascolta: devi continuare a viaggiare perché la terra ha bisogno di essere
scoperta e ricordata ancora e ancora, ciclicamente, creativamente, con le sue
stagioni e i suoi suoni, col respiro caldo dell’ospitalità, col tocco guaritore
dell’estraneità… per timore che diventi fredda e impenetrabile – uno sterile
luogo di potere e politica. La terra ha bisogno che le si ricordi l’eternità di
una vita.
Tu, come un vagabondo, sarai il tempo che ricorda se stesso anche se non ha né
fine né inizio. E questo tempo di nudità si perderà per essere ritrovato ancora
una volta nella poesia dello straniero che ti ha accolto e ti ha dato il respiro
con cui ri-membrare la morte. E perciò sarai luogo che si ri-situa come processo
e come viaggio.
L’origine dell’esistenza è il movimento.
Breyten Breytenbach poeta sudafricano Traduzione di Giulia Tiradritto