Jelsi-Mompantero

di Massimo Centini

Quanto è accaduto domenica 7 a Mompantero può essere definito “gemellaggio di orsi”. Infatti la nostrana maschera valsusina si è incontrata con una cugina proveniente dal Molise: l’orso di Jelsi.

Stessa origine e stesse istanze rituali ne hanno determinato la formazione ,“illo tempore”; sono però, caratterizzate da una diversa caratura scenografica. Infatti quella di Jelsi è andata oltre la dimensione eminentemente etnografica, per essere interamente parte di un tracciato che possiamo definire teatrale.

Non per niente l’artefice della riscoperta della tradizione di Jelsi è Pierluigi Giorgio, regista e autore di documentari che il grosso pubblico conosce per averli visti nella nota trasmissione “Geo & Geo”.

Il percorso simbolico caratterizzante la manifestazione di Jelsi si articola su una struttura che ripercorre i modelli caratteristici dei riti in cui il soggetto che incarna il Carnevale è al centro di un iter in cui la maschera si relaziona con la comunità, dalla quale viene però cacciata, uccisa e poi resuscitata.

La maschera, che di fatto è un costume con il quale il figurante mette in scena la sua pantomima, si attiene ad un canovaccio di fatto abbastanza libero: una regola fondamentale prescrive che l’orso, sempre alla catena saldamente retta dal domatore, si impegni a porre in evidenza il proprio status “selvaggio” con urla, gesti, corse tra la gente e finti tentativi di rapimento. Determinante il contributo della comunità: un gruppo degli abitanti di Jelsi “recita”, partecipando alle varie fasi del Ballo dell’orso, che ha il proprio incipit in una serie di danze tra le strette vie del centro storico e si conclude, dopo una lunga parodia, con il rito della morte-rinascita.

Sembra di assistere a quelle forme di coinvolgimento collettivo che sono alla base della messa in scena delle sacre rappresentazioni pasquali: nel piccolo comune molisano ovviamente il discorso è diverso, soprattutto i fini evocativi ruotano su altri parametri. È invece comune la volontà di non perdere di vista un frammento importante della cultura autoctona, in cui riverberano ancora riflessi di antica origine.

Nel Molise, una regione piccola in estensione ma ricchissima di tradizioni, esistono svariati riti propiziatori di fertilità: dal fuoco al grano. Molti di questi affondano radici in un lontanissimo passato, come le pantomime zoo-antropomorfe con maschere carnascialesche nel periodo del passaggio tra l’inverno e la primavera. Ben quattro sono le figure presenti sul territorio: la Pagliara Maje a Fossalto (CB) che, come quella di Acquaviva Collecroce, la Maya, è coperta di vegetazione (foglie e fiori) raccolta nei campi a maggio: probabilmente si tratta di un rito d’origine slava e dovuta all’arrivo di albanesi, nel XVI secolo, fuggiti sulle coste molisane a seguito dell’avanzata turca; il Diavolo di Tufara (CB), il Cervo di Castelnuovo al Volturno (IS) e l’Orso di Jelsi (CB).

Le ultime tre, contrassegnate dalla presenza di figure rivestite con pelli e caratterizzate da corna, per Pierluigi Giorgio “potrebbe essere gli epigoni di rituali venatori trasformatisi nel tempo in riti agresti: nella cultura greca, Dioniso, capro espiatorio sacrificato, che diventa chicco di grano per mutarsi in frumento”. Su questa direttiva può anche essere posta la festa del grano che ogni anno (nel mesi di luglio) si svolge a Jelsi: per l’occasione vengono create enormi sculture interamente in grano e portate in processione su grandi traglie, mezzi di trasporto che ricordano le nostrana lese.

U’ Ball dell’Urs di Jelsi assume quelle connotazioni che pongono in evidenza le sue peculiarità di rito propiziatorio che evoca la bella stagione con l’apparizione dell’orso nei vicoli del borgo jelsese mentre è tenuto a catena da un domatore e un aiutante che gli impongono di ballare sotto la minaccia di percosse con un bastone. Tra accenni di ribellione e passi di danza, si espandono in paese le note dei musicisti. Di tanto in tanto il gruppo bussa alle porte delle case e al comando: “Orso a posto! Orso olè! Balla Orso!” la famiglia ospitante offre da bere e da mangiare.

Decisamente meno articolata, ma come detto più vicina alla forma originale del rito, la pantomima dell’orso di Mompantero. Espressione simbolica vivissima dei rituali stagionali incuneatisi nel Carnevale, il “risveglio” dell’orso è considerato annuncio della primavera ormai prossima che, con sorprendente inventiva, è stato trasferito sul piano coreografico.

C’è chi pensa che la festa dell'orso andrebbe interpretata come una reminiscenza del Sol invictus: un'ipotesi che non è accettata da tutti, poiché, per le aree alpine, vanno comunque tenute in debito conto le influenze delle religioni di natura precristiane, in cui il “dio-orso” aveva  un ruolo non secondario all'interno dei rituali.

Ma qui andiamo nel difficile, perché è facile incorrere in pericolosi parallelismi che fanno innervosire gli studiosi. Più prosaicamente, ma senza perdere il legame con la realtà oggettiva, il linguaggio del simbolismo zoomorfo si è formato sulla semplice osservazione degli animali, prestando però attenzione alle indicazioni della tradizione cristiana e all’inestinguibile tessuto mitico popolare.

Sull’origine della festa vi sono, da parte degli abitanti di Urbiano, tesi diverse. La prima sostiene che la festa si tramanderebbe dai tempi in cui “un barbaro” persosi nei boschi della Valle di Susa, terrorizzava le genti con le sue razzie. Un giorno i valligiani, stufi delle sue angherie, lo catturarono e lo portarono legato al centro del paese. Per altri l’orso sarebbe l’inverno e la sua cattura rappresenterebbe la fine della brutta stagione. Ricordiamo che gli abitanti di  Monpantero sostengono che in base alle condizioni meteorologiche del giorno in cui si svolge il ballo dell’orso è possibile stabilire la durata dell’inverno.

Più fantastica è la terza ipotesi che pone l’origine del Ballo dell’orso in relazione ad una tradizione proveniente dalla Corsica, per questo fatto si chiamerebbe “Orso marino”….

 

Massimo Centini

 

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ORSI IN FESTA

In principio fu un orso di piume. Infatti questa figura è presente in alcuni dei carnevali alpini e, per quanto riguarda il Piemonte, è documentato in alcune località (dove era, e in qualche caso è) una presenza importante nei rituali di fine inverno: orso di pelli a Mompantero (To) e Volvera (To), Villar d'Acceglio e Limone (Cn); orso di paglia a None; orso di segale a Valdieri (Cn); orso di foglie a Belvedere Langhe (Cn), Cunico (At); orso di piume a Magliano Alfieri, a Montà d'Alba, a Coremiglia e a Monesiglio (Cn); orso di foglie di granoturco a Cunico (At); orso di ricchi e muschio a Balmuccia (Vc).

Poi, seguendo  i capricci delle mode e la variabilità delle passioni umane, tante feste sono cadute nell’oblio, si sono irrimediabilmente perdute; alcune sono riuscite a resistere, altre sono state riscoperte, recuperate e “rimontate” anche se non sempre con il giusto rigore metodologico.

In generale però, oggi, molte feste della montagna sono soprattutto l’espressione forte di una grande voglia di identità, di rivalsa su quel tempo in cui le tradizioni contadine erano qualcosa da dimenticare, qualcosa di “basso”, in forte contraddizione con la cultura “alta” della città.

E così il calendario atavico delle stagioni è stato ricollegato a quello degli uomini: adesso, le feste della montagna ritornano ad essere la rappresentazione oggettiva delle storiche badìe, alimentate dai nostri nonni secondo regole e gerarchie fondate sulla voglia di costruire un sistema simbolico capace di relazionare il tempo sacro a quello profano, il passato al presente. È un universo che la maggior parte di noi crede appartenga ad un passato ormai perduto. Ma non è così: da Schignano in Lombardia, fino a Urbiano in Piemonte, per raggiungere tutta una serie di altre località del nord Italia, ma senza dimenticare casi come l’orso di Jelsi o il rito dell’Uomo cervo a Castelnuovo al Volturno (IS), bestie, santi e divinità costituiscono una presenza importante di un folklore che chiede di essere storia.

M.C.