John Ciaccia e il suo impegno in favore dell'integrazione

Molisani nel mondo

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Nei grandi scenari naturali ed etnici del Canada, é toccato ad un molisano
governare una delle più complesse questioni di integrazione e di coesistenza
tra componenti nazionali che si siano poste nei tempi recenti in Nord America.
Di quest'opera di intelligente mediazione e di lungimiranza politica, che
ha avuto ampia risonanza nella stampa locale e mondiale, ormai tutti danno
atto a chi, nelle occasioni più delicate, ha dovuto usare le sue alte responsabilità
politiche per fare in modo che una crisi, sia pure acuta, nei rapporti con
alcune delle presenze originarie del Canada, quelle indiane, non risvegliasse
mai sopite tensioni e non innescasse un incendio di incalcolabili proporzioni.
Lo stesso protagonista ne asseconda l'evoluzione mettendo ordine, nella
sua splendida villa neoclassica di Beacon Field, nei suoi documenti e nelle
sue memorie, che presto consegnerà ad un più vasto pubblico. Chi lo sente
ricordare quelle vicende, sa che non si tratterà di una semplice rievocazione
di eventi ma della convinta riaffermazione del principio che ha ispirato
tutta la sua condotta politica e, prima ancora, la sua vita di immigrato:
l'integrazione ha un senso ed un valore solo se sia fondata sul reciproco
rispetto delle culture e delle identità. Altrimenti diventa perdita della
memoria e forse dell'anima in cambio di un benessere non si sa quanto reale
e durevole. Questo, infatti, é accaduto a John Ciaccia, nato a Jelsi, vicino
a Campobasso, nel 1933 e arrivato a Montreal quattro anni più tardi, per
raggiungere con la sorella Maria e la madre Angelina Sabatini, originaria
di Limosano, il padre Pasquale. Per Pasquale e per gli altri congiunti di
John in effetti si trattava di un ritorno, essendo già stati a Montréal
negli anni '20, precisamente dal '22 al '29, quando l'incedere della grande
crisi aveva suggerito il ritorno in paese. Negli anni '30, le leggi del
tempo, restrittive dell'emigrazione, avevano costretto Pasquale a recarsi
a Parigi per ottenere il visto di ingresso e per partire poi verso il Canada.
Era uno dei modi più comuni per aggirare le remore frapposte dal regime
fascista. In questa disinvoltura nel ricercare i sentieri anche più nascosti
dell'esodo, giocavano probabilmente fattori diversi: la confidenza con i
percorsi migratori del Nord America, legata sia alle numerose esperienze
realizzate in paese dalla fine dell'Ottocento in poi, sia a vicende familiari
(il padre, Andrea Nicola Ciaccia aveva fatto una puntata a Filadelfia prima
della Grande Guerra); una buona capacità di relazione, acquisita nel corso
delle vicende di guerra, a cui aveva partecipato in cavalleria, con gli
Arditi, e successivamente nella bottega di sarto paterna, che era diventata,
come molte altre botteghe artigiane del tempo, un centro di incontro e di
comunicazione di cultura popolare. A Montréal, nel '37, la famiglia Ciaccia
era arrivata dalla grande porta di Ellis Island, dove sono passati milioni
di immigrati in America. In uno degli ultimi Natali, il regalo che il figlio
Marco ha fatto a John é stato proprio un attestato di passaggio a Ellis
Island, firmato da Lee Iacocca, di origine abruzzese, il presidente della
fondazione che oggi gestisce il museo: una specie di certificato di nascita,
di nuova nascita nella terra di approdo. Nella metropoli del Québec, nella
seconda metà degli anni Trenta, la comunità italiana vive momenti faticosi,
dovuti non solo alle difficoltà di inserimento economico e sociale in una
fase di sviluppo ancora contenuto ma anche alla diffidenza con cui il governo
canadese guarda al regime fascista ed alla sua politica internazionale di
solidarietà con la Germania hitleriana. Lo scoppio della seconda guerra
mondiale e la partecipazione del Canada al campo degli Alleati rendono la
nostra comunità un drappello accerchiato e nemico in una terra ostile. Atteggiamento
di distacco e di isolamento, accertamenti polizieschi, persecuzioni, reclusioni
in campi di concentramento: nulla viene risparmiato a gente incolpevole
e, talvolta, ignara, come hanno documentato storici come Angelo Principe
e il molisano Filippo Salvatore. La famiglia Ciaccia si insedia inizialmente
a Saint Denys, un quartiere con larga presenza di connazionali, vicino alla
Casa d'Italia. Per i ragazzi le scuole in francese, la lingua parlata più
diffusamente, sono praticamente inaccessibili, chiuse ai figli degli immigrati.
Dopo qualche anno Pasquale trasferisce la famiglia in un quartiere inglese,
a Notre Dame des Granges, dove realizza il sogno di ogni nuovo arrivato
di avere una casa propria. "Erano tempi quelli - ricorda John - in cui con
poco si faceva molto". I ragazzi, dopo poco tempo, dalla scuola e dalla
strada portano l'inglese a casa, dove la comunicazione dominante si svolge
in dialetto jelsese, nonostante il padre sia capace di esprimersi per la
sua attività di sarto nelle tre lingue e la madre abbia imparato il francese
tramite le conoscenze di quartiere. Quando John, ormai uomo maturo, visiterà
Limosano, il paese della madre, per la sua inflessione dialettale jelsese,
si sentirà chiedere stizzito dallo zio: "Ma tua madre non parlava mai con
te?" Insomma, per John la lingua materna é stata la lingua... paterna. All'uso
dell'inglese i ragazzi sono portati non solo dalla difficoltà di frequenza
delle scuole francesi, ma anche da un calcolo di prospettiva dei genitori,
che vedono nella lingua prevalente in Nord America uno strumento di affari
e un canale verso il futuro. La fine della guerra consente di allentare
la presa sulle comunità immigrate e, in particolare, su quella italiana.
Si determinano anche le condizioni dello sviluppo che apre le porte ad una
nuova e più consistente ondata migratoria. Le condizioni di vita restano
difficili, ma perdono gradualmente le asprezze degli anni precedenti. I
nuovi immigrati non debbono confrontarsi con le difficoltà sociali e politiche
derivanti dalla guerra e possono concorrere allo sviluppo di alcune fondamentali
attività, soprattutto in ambito urbano. Gli italiani, in particolare, manifestano
un forte dinamismo nel campo delle costruzioni ed in quello dei commerci,
più tardi anche in quello delle professioni. E tuttavia, se si modificano
positivamente le condizioni economiche e sociali, resta sempre alta la barriera
psicologica della popolazione di origine inglese e francese verso i nuovi
arrivati: "Vengono a casa nostra a prendere la roba nostra". "Così non é
mai stato, almeno nella maggior parte dei casi" obietta Ciaccia. "Gli immigrati,
piuttosto, hanno creato nuovi lavori e nuovi affari. In genere lo hanno
fatto con una carica particolare, con una determinazione in più dovuta al
fatto che, essendosi tagliati i ponti alle spalle, erano preparati a lavorare
di più, anche per le abitudini che si sono portati dai loro paesi. Questo
ha aiutato a modificare in meglio, ad umanizzare la legislazione sociale
ed i livelli di civiltà del paese. L'integrazione, la multiculturalità non
sono stati una benevola concessione. Ogni gruppo etnico, ogni individuo
si é dovuto guadagnare il suo spazio con il suo lavoro, con i suoi sforzi.
La legislazione é venuta dopo". Il senso di isolamento degli italiani si
tempera quando il vento proveniente dall'Italia incomincia a cambiare e
l'immagine di un paese vinto e raggelato dalla povertà si tramuta in quella
di una società dinamica, in ascesa economica, con forte capacità di innovazione.
Il cinema, la Vespa, il modo di mangiare e di divertirsi, in parallelo con
la capacità di lavoro e di relazione sociale, diventano le teste di ponte
di cui le comunità all'estero si servono per conquistare gradualmente il
territorio ostile in cui erano approdati. In questo rinnovato contesto,
Pasquale si consolida nella sua attività di sarto e diventa anche disegnatore
di abiti e foreman, vale a dire supervisore, presso una grossa compagnia.
John percorre il suo corso di studi con impegno e profitto, fino all'università,
la Mc Gill, dove consegue la laurea in legge ed il baccalaureato. Nel '57
si avvia nel lavoro presso un accreditato studio legale. Per un quindicina
d'anni alterna l'attività di legale con quella di operatore presso una compagnia
immobiliare, fino all'inizio degli anni '70. Nel '71 viene chiamato inaspettatamente
a Ottawa a ricoprire un incarico di funzione pubblica a livello federale,
quella di vice ministro, dall'allora ministro Jean Chrétien, che aveva apprezzato
alcune sue consulenze giuridiche. Andrebbe a guadagnare un terzo di quanto
un avvocato guadagna. "Il denaro non é tutto" gli dicono per convincerlo.
"Si, per chi lo prende, non per chi lo perde" replica. Ad ogni modo accetta.
Lavora alla spinosissima questione del rapporto con gli indiani, che si
sentono giustamente espropriati dei loro diritti sulla terra canadese. Dopo
poco tempo accompagna Chrétien nell'Alberta tra gli indiani, che l'accolgono
tra gli applausi, mentre prima bruciavano la sua immagine. Nel '73 un'altra
inaspettata telefonata. Questa volta é Robért Bourassa, primo ministro del
Québec, che gli offre la candidatura per il partito liberale nelle imminenti
elezioni provinciali. Ciaccia ha quarantotto ore di tempo per decidere:
accetta. Nel collegio di Mont Royal, uno dei quartieri più esclusivi di
Montréal, sarà eletto per venticinque anni consecutivi, fino all'autunno
del '98, quando deciderà autonomamente di ritirarsi dalle competizioni elettorali.
Da deputato liberale del Québec, una provincia grande cinque volte l'Italia,
Ciaccia ricoprirà cariche di governo di assoluto prestigio e responsabilità,
divenendo nel corso del tempo ministro delle relazioni culturali, dell'energia
e delle risorse naturali, dei rapporti internazionali, del commercio con
l'estero. La sua forza politica e la sua capacità di mediazione si esaltano
soprattutto in occasione della controversia scoppiata con gli indiani a
proposito del progetto di realizzazione di una delle più grandi centrali
di produzione di energia del mondo, quella di Bay James. Ciaccia riesce
a districare la complessa situazione firmando con gli indiani un articolato
accordo di 33 articoli, diventato in Nord America un modello di autonomismo
etnico e sociale. L'accordo persegue lo sviluppo della regione prevedendo
per gli indiani l'attribuzione di territori, di investimenti, dell'autogestione
dei sistemi educativi e sociali e la definizione di programmi speciali per
la pesca e per la caccia. Al di là delle vicende contingenti, il punto di
fondo, destinato a fare maturare fortemente il principio del'interculturalità,
é il riconoscimento agli indiani della dignità di nazione e, quindi, del
diritto ad avere una loro cultura ed i mezzi per coltivare la loro identità.
E' un principio di autonomia che nella società canadese avrà un forte valore
regolativo e che concorrerà a fare di quel grande paese un laboratorio di
confronto interetnico ed interculturale. In effetti, é lo stesso motivo
che fermenta nei processi di inserimento delle diverse ondate di immigrati,
che, pur non essendo definibili come nazioni, cercano tuttavia un'integrazione
rispettosa della loro identità, e nell'aspra contrapposizione tra la componente
francofona del Québec e quella anglofona, che si impasta di intense venature
separatistiche. Ciaccia, che come gli altri liberali ha duramente contrastato
questa minaccia dei Québecois, riconosce le ragioni storiche della loro
protesta negli squilibri economici e sociali e nell'emarginazione culturale,
ma dopo le politiche di recupero dell'ultimo decennio ed il superamento
della crisi del '95, pensa che il separatismo non sia più per la maggioranza
della popolazione una prospettiva politica capace di rispondere ai bisogni
del Québec. C'é un episodio che dimostra il livello di partecipazione etica
di Ciaccia alla sua attività politica. Ai tempi della vicenda della Bay
James una numerosa tribù indiana chiede la sua parte nell'accordo generale.
Non c'é il tempo per farlo, ma Ciaccia promette una soluzione sulla parola.
Il capo indiano gli crede. A distanza di alcuni mesi, i liberali perdono
le elezioni e John non può mantenere l'impegno. Quando nove anni più tardi
diventa di nuovo ministro, egli chiama il capo indiano e gli dice: "Ora
posso mantenere la parola". Questo essere per gli indiani uomo di parola
ha il suo peso nella nuova crisi del '90, quando il sindaco del comune di
Oka, per raddoppiare il percorso di un campo di golf, espropria incautamente,
nonostante gli avvertimenti di Ciaccia, un antico cimitero indiano. In uno
scontro a fuoco, un poliziotto resta ucciso, si accende per settimane una
tensione molto alta che rischia di propagarsi a tutti gli indiani d'America.
Alla fine, solo la tenacia e la credibilità del ministro consentono di trovare
una soluzione equilibrata. John ricorda queste vicende con lo sguardo lontano
e la voce profonda. Si vede che ne é soddisfatto, come lo può essere un
uomo che sa di avere fatto una cosa che risponde ad un'esigenza vera, intima.
Eppure sfuma i suoi indiscutibili meriti collocandoli in un contesto etico
e culturale più ampio, che richiama la sua esperienza di immigrato e le
sue origini molisane. Lo stesso retroterra che, a suo avviso, giustifica
il fatto che i tre rappresentanti di origine non canadese presenti nel Parlamento
del Québec siano tre italiani e tutti tre molisani: "Noi siamo inclinati
a socializzare, a renderci disponibili per gli altri. Forse nella nostra
cultura originaria c'é il germe della solidarietà perché veniamo da ambienti
poveri, dove tutti avevano bisogno degli altri, dove abbiamo fatto la nostra
scuola di responsabilità. Il Canada non é il Canada senza gli immigrati,
il Québec non é il Québec senza gli immigrati. Noi abbiamo contribuito non
solo materialmente al loro sviluppo, ma con la nostra umanità e le nostre
idee, con il nostro modo di fare le cose. E questa é una ricchezza che non
si può valutare, non si può comprare". Ecco perché quest'anno John ha deciso
di fare il suo viaggio in Italia solo con i suoi due nipotini, Nicola ed
Eric, un viaggio altrettanto memorabile come quello che alcuni anni fa fece
con il figlio Marco. In quella occasione John lo portò in Molise, a Jelsi,
e gli sembrò di nascere una seconda volta quando vide che Marco sembrava
essere tornato a casa, in un luogo che faceva parte delle sue origini, si
muoveva come se appartenesse a quel paese. John non lo dice, ma spera che
il miracolo si rinnovi con i suoi nipotini, che essi una volta tornati in
Canada capiscano, magari come possono capirlo i bambini, che uno non si
può sentire veramente libero se non si sente fino in fondo se stesso.